“Una pratica agricola che abbia senso deve partire dalla profonda conoscenza della coscienza”
di Titti Casiello
“Mi hanno detto che le cose complesse bisogna esprimerle nella loro complessità altrimenti è solo uno slogan che non serve a niente”. E la complessità è la trama che avvolge la mente di Bruno De Conciliis che da quel pezzo di costiera cilentana dove alleva le sue viti ricorda alla nostre menti che “a fare le cose senza la conoscenza, si diventa sterili”
Per non diventarlo, allora, è da una vita che Bruno dedica la sua vita all’esplorazione “fare vino è un’opera dell’intelligenza, della cultura, della capacità di essere legato a un luogo”.
A parlare è una voce con un sottotono di pragmatica osservazione che lo spinge a pensare come quel mondo fatto a un tempo di soli artigiani, si sia sinuosamente sostituito a uno fatto, invece, di meri operai “che compiono azioni senza avere alcuna conoscenza del processo”. Oneri dell’industrializzazione e di quel tempo in cui le macchine ci hanno fatto credere che potevano essere nostre amiche. L’unica grande assente nel graduale processo di demenzialità umana era proprio il mondo agricolo, “ma poi anche nei campi sono arrivate le polverine magiche in una reclame che sapeva di miglioramento della qualità del lavoro e anche della vita: produci di più, il tuo frutto è più sano e più bello e tu nel frattempo vai al centro commerciale con tua moglie a fare shopping”.
Così la dealfabetizzazione agricola è diventata la pratica più diffusa “e oggi coltivano mele e pere senza sapere come”.
“Una pratica che abbia senso deve, invece, partire dalla profonda conoscenza della coscienza”.
Forse così magari non ci saremo ritrovati come l’anno passato con raccolti dimezzati, in alcuni casi nulli, a causa della peronospora, quel parassita mortale per la vite che non ha fatto sconti nei vigneti di tutta Italia “perché si agisce come automi, applicando formule magiche sotto consiglio dei guru delle multinazionali che fabbricano prodotti di sintesi. La realtà agricola è invece la capacità dell’uomo cosciente di compenetrarsi in quello che succede attorno perché possa capirlo prima ancora che gestirlo”.
Il Kenya
Ma l’ostinazione di Bruno di conoscere e quella volontà di colmare il divario tra viticoltore artigiano e operaio resta incessante e raggiunge quota 2700 metri, a Meru, in Kenya. Qui con l’associazione onlus Trame Africane vuole fare un vino prodotto in loco.
“La prima volta che sono andato in Kenya la suorina dell’ospedale di Kiirua stava dando il diserbante nell’orto: facciamo prima e viene tutto pulito mi disse”. Da allora Bruno è andato lì altre 8 volte “adesso tutti i terreni che servono per dar da mangiare ai ricoverati in ospedale sono gestiti in biologico”. L’anno scorso le prime, poche, bottiglie di Cabernet Sauvignon e Merlot .“Ad agosto andrò giù per la potatura e cercherò di capire” . Il fine è renderli autonomi, non dipendenti da un dono “creando una forma di sostentamento economico per la comunità”.
L’ Ateneo dei vini erranti
Ma nel mentre c’è da gestire anche l’Ateneo. “Guardando i paesi dell’Appennino c’è una desertificazione e spopolazione inarrestabile. L’Ateneo è nato con l’idea di creare progetti che potessero in qualche modo tenere in vita i piccoli borghi”. Così la scoperta di oltre 70 cantine ipogee a Cairano, in alta Irpinia, e per creare connessioni i viticoltori artigiani si sono adoperati “Massimo Alois mi ha regalato del Casavecchia e del Pallagrello, poi ho preso dell’Aglianico della Cantina di Enza a Montemarano …” e il vino è stato prodotto con l’uso di un torchio e della sola energia animale “devo dire è venuto molto buono”. Le bottiglie non sono in commercio, fanno parte di un circuito di baratto di energie, di idee, “di scambio umano direi”.
Ma Cairano è solo una delle tante strade erranti che l’Ateneo sta seguendo insieme con l’economista Pasquale Persico ed è solo una delle tante strade battute da Bruno “fin quando esiste il possibile bisogna percorrerlo”.
Sembra che la vita se la mangi, pure in un sol boccone, interessato a tutto, basta che sia creato dalle mani dell’uomo: “Il vino è un esercizio di respirazione della terra ed è artigianato nella sua produzione”.
La degustazione al Teatro del gusto di Napoli
Naima è il vino di punta dell’azienda, dalla selezione delle migliori uve di Aglianico, questo vino viene imbottigliato dopo diversi anni di affinamento in barriques per proseguire poi con un breve passaggio finale in acciaio e in bottiglia. Nell’interpretazione di de Conciliis Naima è sempre è in grado di riportare in ogni sua annata agli odori e ai sapori della sua terra, il Cilento.
2003
Una vena balsamica sottile si interseca a prugne, viole e aromi tostati e attraversa l’olfatto traghettandolo in un palato pieno, voluttuoso, dalla trama tannica amabile che riesce a sostenere un corpo di assoluta persistenza e piacevolezza gustativa sul finale.
2009
È sorprendente la complessità con cui arriva al naso. Il bouquet olfattivo, aromaticamente scuro, è purezza e intensità all’unisono, tra frutta nera, spezie, liquirizia e cioccolato. Le stesse che tornano su un finale che assicurano un palato soddisfatto e muscoloso.
2018
Da aspettare, ma pare già sconfessare la sua predilezione ad essere un gran vino con quel naso deciso su sentori floreali e di macchia mediterranea. In sottofondo echi di fave di cacao e di grafite, mentre il sorso conserva freschezza e tannini maturi in una lunghissima persistenza.
Il festival Teatro del Gusto si è reso possibile nella sua espressione tradizionale grazie al contributo del fondo Regione Campania FSC - progetto finanziato con risorse del FSC - piano sviluppo e coesione della regione Campania
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