Li chiamavano pomodori d'inverno quando non esisteva il frigorifero, erano gli unici che si potevano mangiare anche col freddo a Salina.
di Titti Casiello
Cos’è un pomodoro? E come definirne il suo gusto?
Servirebbero dei parametri, ma molto probabilmente, al banco frutta del supermercato non riusciremo a trovarli; persi tra un Pachino e un Piccadilly dalle forme sempre uguali, perfette e luccicanti, forse non tutto ciò che è rosso è davvero un “pomo-d’oro”.
Cos’è allora un vero pomodoro? E dove andarlo a ricercare?
Quelli di Michele Oliva coltivati a Salina hanno una definizione univoca, in linea con la terra e con il senso agricolo, sanno riportare al palato un sapore antico che sembrava essere finito nel dimenticatoio gastronomico.
Lui, messinese di nascita, a Salina ci è sempre venuto fin da ragazzino per passare le sue estati. Poi una laurea in Scienze e Tecnologie agrarie messa a frutto come ricercatore del CNR di Catania, e nel mentre la continua ricerca di un luogo di elezione per mettere a frutto la sua tesi di laurea sui vari ecotipi di pomodoro che si sviluppano senza acqua.
“L’ecotipo, a differenza della varietà, prende vita da una popolazione di pomodori che incontrandosi hanno sviluppato nel tempo caratteristiche genetiche” dice Michele “Se una varietà allora è il San Marzano o il Piccadilly, con un loro specifico nome, l’ecotipo deve, invece, il suo nome al luogo in cui è nato, come il Giallo di Basicò, il Locatello di Custonaci o il Seccagno di Salina”.
Ed è su quest’ultimo che Michele si concentra, quando nel 2011, decide di trasferirsi definitivamente a Pollara, una frazione di Malfa, raggiunto dopo qualche anno anche da sua moglie Daniela e sua figlia Beatrice.
“Seccagno sta per secco, cioè che non ha bisogno d’acqua”. Questo antico cultivar tipico del Sud Italia è, infatti, coltivato senza irrigazione, cresce a contatto con la terra, nutrendosi della condensa che si forma durante la notte grazie all'escursione termica .
E a Salina, come d'altronde in ogni isola dell’isola siciliana dipendente da “o continente”, l’acqua è tanto più preziosa quanto l’oro “fino a 50 anni fa sull’isola non arrivavano neanche le navi cisterna, c’era solo acqua piovana”.
Si chiama allora sostenibilità ambientale quello che fa Michele, con la coltivazione di "u Siccagnu" che fa risparmiare l’acqua di irrigazione a quella che oggi è, anche, la sua isola.
“Il Seccagno si protegge dalla calura grazie alla sua buccia spessa” ed essendo povero di acqua al suo interno diventa, poi, perfetto in fase di trasformazione sotto forma di pomodori secchi.
Eccole allora le file ordinate di pomodori che si aprono dinanzi casa di Michele: poco meno di un ettaro per dodicimila piante distribuite tra Pollara, Malfa, e Valdichiesa, quest’ultima la zona più alta dell’isola, a circa 300 metri sul livello del mare che da un lato guarda il mare e dall’altro trova riparo dall’arsura tra le cime del Monte Fossa delle Felci e Monte dei Porri, i due vulcani spenti dell’isola.
Tutto intorno c’è una macchia verde fatta di vigneti, ginestre, olivi e ovviamente piante di cappero. “Questi sono i terreni migliori per l’agricoltura, c’è sempre vento e frescura”.
La presenza di un suolo così asciutto riduce, poi, la formazione di spontanee non desiderate e “per sua genetica il Seccagno è, anche, un pomodoro che ha grande resistenza alle fitopatologie comuni a differenza di tanti altri pomodori”.
Michele è contrario alle etichette del biologico, fedele più a un concetto di natura. “Ogni anno roteiamo il terreno con le varie colture e ogni tre, quattro anni lo facciamo riposare. Quando c’è da intervenire lo si fa solo con prodotti naturali come le alghe marine estratte a freddo, la zeolite o in caso di funghi, come la peronospera, mettiamo un fungo antagonista, il trichoderma, così da generare una sorta di lotta biologica per mangiare il fungo cattivo”.
Ed è così facendo, senza uso di diserbanti, concimi o pesticidi di sintesi, che Michele ha ottenuto una materia prima integra, ricostituendo l’espressione di un terroir e di una cultura che stava andando persa nella memoria.
Prima del secondo dopoguerra i cultivar di seccagno, o pomodoro da secca, erano, infatti, molto diffusi, in Sicilia, in Calabria arrivando fino al basso Lazio; tutto poi è andato perso e soppiantato da varietà più produttive e favorevoli al mercato dei grandi numeri.
Un mercato che non conosce però il gusto dei pomodori di Michele che “hanno sempre una spiccata acidità, sono salini e leggermente affumicati, come se il pomodoro sapesse anche delle ceneri e della lava presenti nel terreno vulcanico”.
La produzione e la trasformazione
Per arrivare a produrli ci vuole fatica però, con il grosso del lavoro tutto concentrato in estate “di solito iniziamo la raccolta verso metà luglio fino alla fine di agosto”.
Una parte di questi viene raccolta quando il grappolo è ancora verde “con il primo palco”, così si chiama la prima fioritura del Seccagno che in una sola stagione arriva a farne anche tre “e con questi ci facciamo il Pinnulo appeso che maturerà poi piano piano”, altra parte, invece, viene immersa in salamoia e sigillata in barattoli di vetro.
E per il resto, invece, i pomodori verranno tagliati a mano e, poi, appoggiati sui “cannizzi” (stuoie fatte di rete di polietilene) al sole. “Dopo due giorni, massimo tre, coperti dal sale, sono pronti e con questi ci facciamo dei pesti, il paté o li mettiamo semplicemente in busta, utilizzati tradizionalmente in Sicilia, come condimento all’interno di salse”.
Da un chilo di pomodoro fresco si ottengono appena cento grammi di prodotto essiccato “in tutto riusciamo a produrre dalle dieci alle quindici tonnellate l’anno”.
Qui l’idea di limitato raro non ha nulla a che fare con le idee di un marketing di lusso “è il massimo che si può produrre, tutto qui”.
A tanta cura per la raccolta e la produzione, altrettanta ne deve corrisponde, allora, per il suo consumo, necessariamente parsimonioso viste le scorte limitate. Così da settembre in poi è tutto un bel vedere tra i vicoli di Salina con quei grappoli che fanno da corredo alla cromia dell’isola: pendoli di pomodori appesi fuori alle mura delle case e presi all’occorrenza ogni volta che si deve cucinare qualcosa. U Siccagnu sta bene con tutto “è tipico qui avere il Pennulo appeso sotto la loggia della terrazza”.
Si può conservare pure fino a nove mesi, diventando così la scorta per i mesi freddi “li chiamano pure pomodori d’inverno” e con l’ultimo vento freddo e l’ultimo spaghetto condito cu u Siccagnu è già tempo di seminarlo di nuovo.
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