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Il ritorno di Dioniso

Alla domanda prima l’uovo o la gallina viene da pensare prima il vino o prima Dioniso?


di Titti Casiello




I due in realtà sono due forme di una stessa sostanza, unica matrice che ricorda come tutto si crea e nulla si distrugge.


Di come nacque il Dio della fermentazione lo racconta molto bene Karl Kerény nella sua opera “Dioniso. Archetipo della vita indistruttibile”.


I cretesi avevano notato come le cose ribollendo, si trasformavano e decomponendosi davano vita ad altro.


Il miele fermentato, la birra e così l’uva erano chiari segnali che la vita poteva emergere dalla scomposizione delle cose e che quindi la vita stessa era indistruttibile, trasformandosi di continuo, consentendoci di essere più persone e quindi vivere più vite.


Furono poi i greci a divinare questo mito con Dioniso che divenne il dio della vegetazione, del teatro, dei tori, delle donne e ovviamente del vino. Lui, che nacque dalla coscia di Zeus, fatto a pezzi con l’uva che si schiacciava, passava a una vita superiore, più potente.


Come ha fatto allora questo potente Dio nei suoi continui mutamenti a insegnare all’uomo il bere bene?

La rotta da seguire per conoscere dove nasce il vino buono è, forse, nei porti attici, in Grecia, a Porto Raphti e Thorikos dove Dioniso giunse per la prima volta.

Andò a casa di un uomo di nome Icario e gli portò come dono una vite addomesticata. Era sconosciuta ai popoli dei monti attici che conoscevano solo quella selvatica. Icario comunque la piantò e seguendo le indicazioni del Dio l’anno successivo produsse il suo vino. Lo mise in otri di pelle di maiale e lo donò agli abitanti dei villaggi vicini che lo tracannarono fino al punto di cadere in un’ubriachezza violenta.

A quel punto non avendo mai provato lo spirito ebbro si convinsero che Icario li avesse avvelenati, quindi si radunarono e lo uccisero, seppellendolo proprio sotto la sua vite addomesticata.

Come siano andate davvero le cose non è certo, ma che la vite sia arrivata come un dono fatto da un Dio sembra rispondere proprio al significato ultimo che giunge fino ai nostri giorni, ricordandoci l’etimologia sociale che dovrebbe avere il vino.


Per definizione il dono è qualcosa da spartire, un piacere privo di lucro che appena condiviso aumenta di valore. Esattamente lo stesso effetto che genera una bottiglia aperta su un tavolo tra quattro sedie occupate: i calici sono vuoti e lui è già entrato nel sangue di tutti, diventando quel collante naturale che ogni sera sa tenere insieme una massa di individui altrimenti destinati alla solitudine.

L’ubriachezza, in questi casi, diventa solo una conseguenza, ma mai un’intenzione.


Eppure non la dovette pensare così l’imperatore Giustiniano II quando decise, invece, di radere al suolo la cultura pagana e con essa anche il culto di Dioniso. Vietò, nel 691, ai lavoratori delle vigne del Mediterraneo di gridare “Dioniso!” al momento del raccolto, gli era consentito solo di urlare “Kyrie eleison!” e con i 102 canoni emessi durante il Concilio Quinisesto, nel 692, Dioniso fu, poi, messo definitivamente al bando con generale soppressione del piacere e delle libertà pagane.


Eppure, la potenza di questo Dio di trasformarsi e riadattarsi è stata più forte della volontà terrena di Giustiniano e il vino da spirito ebbro pagano è riuscito a diventare addirittura il simbolo più importante della religione cristiana diventano il sangue di Cristo.


Oggi il cristiano beve ancora il vino, e lui conserva ancora tanto il suo valore religioso, quanto quello liberale dei greci. La sua capacità di trasformarsi e adattarsi sopravvive perché è Dioniso stesso che continua a vivere in noi all’atto del bere. Del suo continuo ritorno in noi lo spiega bene Hyde nel suo libro “Il dono. Immaginazione e vita erotica della proprietà” che del bere afferma “quando si beve il liquido fermentato, lo spirito prende vita in un nuovo corpo. Bere è il sacramento della ricostituzione del Dio”.

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