A Cuma la vergine dai poteri divinatori rivive nei vini della famiglia Di Meo dell’azienda La Sibilla
di Titti Casiello
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Tra i venti che si incuneano nella grotta cumana, non molto distante dalla porta degli inferi che il poeta Virgilio segnò come l’ingresso del Lago d’Averno, sembra quasi sentirla quella voce. È quella della Sibilla.
Era donna, una vergine dai poteri divinatori donategli da Apollo in cambio del suo amore. Ella gli chiese di poter vivere tanti anni quanti erano i granelli di sabbia che poteva tenere nella sua mano, ma dimenticò di domandare anche l'eterna giovinezza, che Apollo comunque le offrì, ma in cambio della sua verginità. In seguito al suo rifiuto la Sibilla Cumana iniziò a invecchiare, le ossa si rimpicciolirono e la pelle si consumò al punto tale da assumere le sembianze di una cicala, tant’è che finì appesa in una gabbia nel tempio di Apollo, proprio a Cuma. In queste condizioni la Sibilla avrebbe desiderato solo la morte che, purtroppo, però non arrivò mai.
Oggi la Sibilla rivive nella suggestione che evoca quel legame acqua-fuoco della terra che la ospita. Sono i Campi Flegrei, sottile lingua di terra che si protende nel mare del golfo di Napoli, tra insenature e promontori di roccia tufacea, mentre vulcani assopiti danno luogo a misteriosi laghi come l’Averno, appunto.
Qui nei fondali marini si intravedono anche i resti di un’intera città sommersa dal mare, è Baia, che sa lasciare poi lo spazio sulla terra all’ultimo nato: il Monte Nuovo, il più giovane tra i promontori europei.
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Ed è in questo scenario, di magnetismo e misticismo che si preserva un antico patrimonio vitivinicolo, raro, visto che è uno dei pochi ad essere sfuggito alla fillossera.
Quelle viti di Falanghina e di Piedirosso, varietà da sempre coltivate in queste zone, sono a piede franco, schiette e saggie e sanno portare nelle loro radici lo splendore dell’antico Impero Romano che abitò questi luoghi nell’abbondanza del cibo e del vino offerto da questa terra.
Oggi quelle stesse viti che si inerpicano su terrazzamenti, guardando da un lato il lago Fusaro, la coltivazione di mitili e il castello di Baia e dall’altro le isole del golfo di Pozzuoli, sono custodite dalla famiglia Di Meo, da più di cinque generazioni custodi di questi terreni.
La loro piccola azienda familiare è dedicata proprio al mito della Sibilla.
C’è un vigneto, tra i loro dieci ettari vitati, che si distingue più di tutti però, è il Cruna Delago.
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Le sue viti, antichissimi tralci di Falanghina attaccati a pali di castagno, si affacciano sullo specchio d’acqua del lago del Fusaro. Qui Vincenzo e Salvatore, figli di Luigi e Restituta Di Meo, producono un grandissimo vino bianco, ma è sempre stato un grandissimo vino anche quando lo facevano i loro genitori, i nonni e i bisnonni, quasi che vien da pensare che quella voce della Sibilla si insinui nei filari, si trasformi in vento e regali ogni anno un vino dai tratti austeri e mistici.
Il legame con la terra è però anche nel calabrese, nel marsigliese, ‘a livella, e ‘a surcella, tutti vitigni che altrimenti sarebbero andati perduti nella memoria e recuperati invece dai Di Meo che col loro instancabile lavoro fanno rivivere il mito della Sibilla.
Al Teatro del Gusto di Napoli, in una degustazione condotta da Nando Salemme, patron di Abraxsas, luogo di ristoro per il corpo e l’anima proprio lì nel cuore dei Campi Flegrei, i vini de La Sibilla hanno saputo stordire di enfasi smuovendo sopiti ricordi e animando nuove energie.
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