Aspetti storici e antropologici di queste due forme di allevamento spiegati da Matteo Gallello
di Titti Casiello
C’è stato un tempo in cui un luogo aveva una sua natura definita, granitica: il primo temporale d’agosto avrebbe portato la fine dell’estate, il ciliegio in fiore l’inizio della bella stagione. Gli archetipi erano porti sicuri, sensazioni di certezza provate osservando la natura.
Chissà, poi, per quale assurda ragione abbiamo smesso di credere nelle sicurezze e d’improvviso tutto ciò che era nuovo, che aveva il sapore dell’innovazione, ci è sembrato incredibilmente più rassicurante.
Nuovi sistemi di produzione e di allevamento in viticoltura, talora più intensivi, talora anche solo sperimentali, con il ricordo degli archetipi soppiantato raccolto dopo raccolto.
All’alba allora si va in campagna, lavorando la terra con quello che c’è e pure con quello che non c’è e che il mercato vuole. E come è un giorno così è pure il giorno dopo, si continua da dove si è finito ieri, senza sentire più il rumore della natura, in un sistema, ormai, così insinuante che ritornare alla bella stagione è come un pazzo che aspetta la stella cometa.
In questo encefalogramma lineare, un defibrillatore continua a farsi sentire e arriva dalla viticoltura pensante, che non si lascia ridurre a un’immagine da cartolina. O meglio vuole ritornare alla sua prima istantanea, origine della Pangea, “all’archetipo” dice Matteo Gallello, divulgatore e giornalista che al Teatro del Gusto 2024 invita a riflettere sull’etimologia di questa parola, non solo nel mondo agricolo.
“Dal greco antico l’archetipo deriva dalla combinazione di “Arche” cioè principio, inizio, origine e “Typos”: modello o forma”.
Ma l’archetipo si adatta ai tempi stessi nei quali vive plasmandosi in nuovi significati per descrivere simboli o concetti universali che si ripresentano in diverse culture, opere d’arte o narrazioni “diventando archetipale, rappresentando un’idea o un concetto profondo e condiviso nell’esperienza umana, stratificatosi sul suo modello dell’archetipo”.
Così la rotta del Mediterraneo e la storia della sua vitis iniziano ad essere tracciate tra alberelli e pergole “non raccontando solo un banale sistema di allevamento, ma l’evoluzione della cultura umana e della natura stessa”.
Natura strisciante e aerea, cultura che si eleva verso l’aria e quella che sprofonda nella terra “con le viti allevate ad alberello nella loro viscerale natura e a pergola in quella celeste”.
“Una relazione prossemica molto differente tra loro, che rimanda alla stessa distanza fisica che mettiamo tra noi e gli altri. La pergola col suo sguardo al cielo e mani in alto e l’alberello coi suo occhi verso terra e le mani in basso”.
Di questa distanza intima, di questa relazione antropologica, se ne sente più che mai il bisogno. Di ritornare a vedere di nuovo il primo acquazzone di agosto ed essere consapevoli di cosa voglia dire un ciliegio in fiore “e oggi assistiamo a un tenace recupero di questi archetipi e archetipali nel mondo della viticoltura, tra gesti fatti di empirismo, ma anche di fede”.
“Si trovano a macchia di leopardo in Italia. Nel Soave, in Trentino, in Emilia-Romagna, nel centro e basso Lazio o in zone più nascoste come a Carema nell’alto Piemonte o in Liguria nella Cinque Terre”.
La pergola
“La pergola è come un pannello solare” diceva Emidio Pepe, fondatore dell’omonima azienda in Abruzzo, quando ben oltre 50 anni fa decise di convertire tutte le sue viti a pergola, ma la pergola è anche luogo di incontro e di scambio con le altre colture “una forma di sopravvivenza per la famiglia che permette di fare tante cose insieme come mi disse la vignaiola Elisabetta Foradori. Ed ecco il grano, il fieno, l’orto e altri semi che si sviluppano al di sotto di essa”.
L'alberello
Ed è sempre al di sotto, da pietra dopo pietra che prende forma un alberello. Si scava, ma non si distrugge. E quelle pietre serviranno, poi, per costruire, nella maggior parte dei casi, dei muri di contenimento per non far franare il terreno, spesso sciolto e sabbioso. Il lavoro è duro, è faticoso, ma non lo si fa solo per lei, ma per un principio che sorregge l’eticità di una vita umana: mantenere intatto un territorio senza violentarlo. Con quei piccoli alberi nani che diventano parte di un paesaggio e iniziano anche loro a sentirsi parte di questa vocazione umana.
La degustazione al Teatro del Gusto 2024
È da queste considerazioni che Matteo Gallello, per il Teatro del Gusto 2024, ha condotto una degustazione di sette vini archetipali ottenuti da viti ad alberello o a pergola, che mantengono una salda relazione con la natura primigenia di questi allevamenti.
Saittole Bianco 2022 - Ribelà
In una zona vulcanica come quella dei Castelli Romani, viti di Malvasia e di Trebbiano disposti in un ordinato allevamento a tendone, cesellano un autentico, prezioso artigianato guidato da un timbro fruttato e da un ruscello salino che sa rendere il gusto ancor più affilato.
Granato 2020 - Foradori
Da una selezione di pergole trentine situate sulla Piana Rotaliana, un Teroldego sottilmente profumato di ciliegie e fragoline, librato dal gusto dove la carnosità del palato è ben contrastata da una vena di aurea freschezza sul finale.
Rosso 2017 – Monte di Grazia
Esclusivo, tanto il vitigno quanto il suo paesaggio, per le viti di Tintore autoctone della Costiera Amalfitana allevate esclusivamente a raggiera. Pali di castagno che sorreggono grappoli spargoli e che al termine di una faticosa vendemmia si trasformano in un calice che parla di Mediterraneo e di piccoli frutti rossi con movenze aggraziate in un palato ricco di acidità e sapidità al pari.
Pignatello 2016 - Barraco
A Trapani il Perricone si chiama Pignatello, ancor di più se è quello identitario prodotto a Marsala da Nino Barraco che, superata la lieve nota ossidativa iniziale, profuma di buccia di mela e sbuffi balsamici in un palato austero che lascia spazio a una progressività portentosa.
Cirò Rosso Classico Superiore 2019 – L’Arciglione di Cataldo Calabretta
Quelle viti di Gaglioppo allevate ad alberello a Cirò Marina sembrano richiamare dal costone calabro la prima rotta del Mediterraneo che profuma di un frutto croccante e poi autunnale in una nitida dinamicità che raggiunge il suo finale in una lunga, lunghissima scia sapida.
Ayur 2022 – La Spanda
Calce e i suoi lunghi filari di viti, piante tra le altre piante, che sembrano quasi confondersi tra di loro su quel cucuzzolo dei Pirenei Orientali situato nella regione del Roussillon. Assemblaggio, in parte macerato, di Muscat, Petit grain e Moscato d’Alessandria che esplode tra note di cedro e litchi in un palato dalla grande materia gustativa e riccamente minerale in retronaso.
Grk 2022 – Vinarija Kriz
In Dalmazia un vitigno unico come il Grk, allevato ad alberello, lascia completamente esterrefatto il calice del degustatore. Una non acciuffabile emotività provocata da una vivacità olfattiva che dal miele, agli agrumi gialli, ai sentori affumicati, alle erbe traghetta in un palato acido, salato, di magistrale fattezza qualitativa.
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